Titolo originale: We need to talk about Kevin
Nazione: Gran Bretagna, USA
Anno: 2011
Genere: drammatico, thriller
Durata: 1h51m
Regia: Lynne Ramsay
Sceneggiatura: Rory Kinnear, Lynne Ramsay
Fotografia: Seamus McGarvey
Musiche: Jonny Greenwood
Cast: Tilda Swinton, John C. Reilly, Ezra Miller, Jasper Newell, Rock Duer, Ashley Gerasimovich, Siobhan Fallon, Alex Manette, Kenneth Franklin, Leslie Lyles, Paul Diomede, Michael Campbell, Jamal Mallory-McCree, Mark Elliot Wilson, James Chen, Lauren Fox, Kelly Wade, Ursula Parker, Jason Shelton, Simon MacLean Erin Maya Darke, Annie O’Sullivan, Georgia X. Lifsher
Trama
Eva Khatchadourian è stata una donna avventurosa e scrittrice di successo. Pian piano ha dovuto rinunciare alle sue ambizioni professionali dopo essere rimasta incinta. Ha dovuto lasciare la città per vivere in una piccola e tranquilla cittadina di provincia. Dalla nascita di Kevin la vita di Eva cambia radicalmente, e tra madre e figlio nasce subito un rapporto conflittuale. Nei confronti del padre Kevin si dimostra un bambino amorevole; con la madre continua a piangere, passando dall' indisponente mutismo infantile all’aperto conflitto con la madre durante l’adolescenza. Un giorno Kevin compie qualcosa di tragico che cambierà per sempre la vita della sua famiglia e quella dell’intera comunità.
Recensione
“...E ora parliamo di Kevin” è un di quei film che, una volta finiti i titoli di coda, rimangono impressi in mente, lasciano l’anima scossa e il sangue congelato nelle vene. Adolescenti, senza un apparente motivo, distruggono le vite di loro coetanei. Cronache non troppo lontane nel tempo, che provengono da cittadine della tranquilla provincia del mondo: Columbine (Stati Uniti), Quebec (Canada), Erfurt (Germania), Kauhajoki (Finlandia), tracciano una mappa geografica sporca di sangue innocente.
Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Lionel Shriver del 2003 (in Italia tradotto più correttamente, rispetto al titolo del film, in “Dobbiamo parlare di Kevin”): le lettere di Eva Khatchadourian, madre di un adolescente che sulla soglia dei sedici anni compie una strage inenarrabile per la sua ferocia e freddezza. Le pagine di orrore e paura vengono illustrate sullo schermo dalla regista e sceneggiatrice scozzese Lynne Ramsay che già si era fatta notare con il suo primo cortometraggio, “Small deaths”, Premio della Giuria al Festival di Cannes nel 1996 e con la sua pellicola d’esordio, “Ratcatcher”, vincitore della sezione “Un Certain Regard” della medesima manifestazione nel 1999.
Chi ha letto il libro di Shriver rimarrà sorpreso per il modo in cui Ramsay, assieme alla co-sceneggiatrice Rory Kinnear, abbia interpretato le pagine del libro. Ramsay non dà molto spazio ai dialoghi, lavora piuttosto sulle immagini e sulla musica, offrendo una visione poetica di una storia tragica, fondendo reale e surreale, come se non ci fosse alcuna differenza tra loro. Un lavoro che ha trovato ottima collaborazione da parte del direttore della fotografia Seamus McGarvey: la sua è una fotografia che diventa arte. “...E ora parliamo di Kevin” inizia con una bella, inquietante immagine: una tenda diafana galleggia su una luce bianca, avvolta nell’oscurità. Definisce la prima essenza del film: l’impalpabilità. Una storia difficile da comprendere, difficile da interpretare, le cui cause possono essere solo oggetto di supposizione. I dubbi e responsabilità pesano come macigni. Educare, amare, relazionarsi agli altri: termini semplici da scrivere, ma che spesso mi mostrano come ostacoli insormontabili. Subito dopo, la Fiesta della Tomatina di Buñol (Valencia, Spagna): un mare di pomodoro rosso che, non a caso, sembra sangue (fantastica la ripresa dall’alto) nel quale è immersa una folla in uno stato confusionale, tra allegria e angoscia. E’ il rosso la seconda essenza del film: il rosso del sangue, il rosso della pittura gettata per scherno sulla casa di Eva, il rosso delle sedie di un’agenzia di viaggi, il rosso delle porte della scuola, il rosso di una candela, il rosso delle luci al neon, il rosso dell’orario di una sveglia, il rosso di un peluche, il rosso di una marmellata, il rosso di un giaccone.
Il flusso dei flashback, tra i diversi piani narrativi in cui scorre la storia e i momenti più brevi tratti dai ricordi di Eva, è reso in modo chiaro e coerente. Tutto diviene comprensibile agli occhi dello spettatore che scopre lentamente i dettagli della tragedia senza mai vederli. I frammenti in cui è distribuita la storia, distanti nel tempo, ma che si sfiorano per analogia nelle sensazioni dei protagonisti, si incastrano un puzzle perfetto costruito in fase di montaggio da Joe Bini.
Com’è possibile che un film tanto bello abbia ricevuto zero nomination agli Oscar? “...E ora parliamo di Kevin” è tra i migliori film degli ultimi anni, di sicuro migliore di quelli presenti nella categoria miglior film. Regia, fotografia e sceneggiatura (non originale) fantastiche, ottima anche la colonna sonora: il country di Lonnie Donegan; la dolce “Everyday” di Buddy Holly da sottofondo alla surreale parata notturna delle maschere dei mostri Halloween; la nostalgica “Last Christmas” dei Wham! durante un’apparente felice festa di Natale con i colleghi; “In my room” dei Beach Boys quando Eva entra nella stanza di Kevin alla ricerca di qualche notizia di un figlio che non riesce a comprendere; l’elegiaca “Once in Royal David’s city” utilizzata assieme al suono del boato del pubblico quando Kevin esce dalla scuola esibendosi e vantandosi come una rockstar. “Mother’s last word” di George Washington Phillips va ascoltata perché il suo testo, tradotto, dice più o meno così: «Non potrò mai dimenticare il giorno in cui mia madre mi disse dolcemente: “Stai per uscire, mio caro ragazzo, sei sempre stato la gioia di tua madre. Adesso, mentre inizi a vagare in questo mondo potresti non essere in grado di tornare a casa. Ma ricorda Gesù [...] lui ti farà luce e ti indicherà la giusta via”». Ognuno faccia la sua personale considerazione.
L’esclusione dagli Oscar di Tilda Swinton, qui alla sua migliore performace della sua carriera, è davvero l’assurdità (leggi: vergogna) più grande. Una scelta incomprensibile per la quale sarebbe obbligatoria una motivazione ufficiale. La sua Eva Khatchadourian è una donna che sopravvive cercando di convivere con un incubo senza fine, strozzata dalla colpa di aver generato quell’incubo e non averlo davvero compreso. Se all’inizio la vediamo come donna avventurosa, scrittrice di libri, nelle susseguirsi delle scene Eva diventa una donna sconvolta che vive in modo catatonico la sua vita per sottrarsi al dolore. Quel rosso della festa spagnola si trasforma nel rosso della pittura con cui qualcuno ha imbrattato la sua casa, un’onta che cerca di cancellare con tutti i suoi sforzi. Probabilmente Eva non si sentiva pronta ad essere madre, così come Kevin si sente come uno che non ha chiesto di nascere. Già da neonato sembra avercela con sua madre. Piange talmente tanto da sfinirla. Il suo pianto diventa un’ossessione continua tanto che, mentre si trova in strada con il passeggino, Eva si ferma in strada nei pressi di un martello pneumatico per non sentire le continue grida del bambino: se normalmente i 120db di quello strumento rappresentano la soglia del dolore, nel caso di Eva sono un piacevole sollievo. In tenera età Kevin è interpretato da uno spento e impertinente Rock Due, come bambino da un geniale quanto dispettoso Jasper Newell. L’adolescente Kevin è un androgino e maligno Ezra Miller, la somiglianza con la Swinton non si limita alla particolare acconciatura. Due entità così simili e così in contrasto. Un amoroso e passionale odio reciproco. Bastano gli sguardi mefistofelici di Ezra per creare un personaggio ambiguo, pervaso dal Male che neanche lui riesce a spiegare. Kevin è affettuoso con suo padre, Franklin (John C. Reilly), e non cerca neanche di nascondere alla madre il fatto che si tratti di una strategia studiata solo per farle del male. Franklin vive in uno stato di demente felicità, illudendosi che la sua famiglia abbia una vita normale e serena. E’ sempre raggiante, contento, giustifica in continuazione il figlio senza accorgersi di nulla.
“...E ora parliamo di Kevin” non è un film horror, è una storia di orrore domestico, troppo vicino ad ognuno di noi, una storia dura, devastante, inquetante e senza speranza, narrata con emotività e grande abilità dalla regista Lynne Ramsay. Acclamato in giro per il mondo, inspiegabilmente snobbato dalla Academy Awards.
Nazione: Gran Bretagna, USA
Anno: 2011
Genere: drammatico, thriller
Durata: 1h51m
Regia: Lynne Ramsay
Sceneggiatura: Rory Kinnear, Lynne Ramsay
Fotografia: Seamus McGarvey
Musiche: Jonny Greenwood
Cast: Tilda Swinton, John C. Reilly, Ezra Miller, Jasper Newell, Rock Duer, Ashley Gerasimovich, Siobhan Fallon, Alex Manette, Kenneth Franklin, Leslie Lyles, Paul Diomede, Michael Campbell, Jamal Mallory-McCree, Mark Elliot Wilson, James Chen, Lauren Fox, Kelly Wade, Ursula Parker, Jason Shelton, Simon MacLean Erin Maya Darke, Annie O’Sullivan, Georgia X. Lifsher
Trama
Eva Khatchadourian è stata una donna avventurosa e scrittrice di successo. Pian piano ha dovuto rinunciare alle sue ambizioni professionali dopo essere rimasta incinta. Ha dovuto lasciare la città per vivere in una piccola e tranquilla cittadina di provincia. Dalla nascita di Kevin la vita di Eva cambia radicalmente, e tra madre e figlio nasce subito un rapporto conflittuale. Nei confronti del padre Kevin si dimostra un bambino amorevole; con la madre continua a piangere, passando dall' indisponente mutismo infantile all’aperto conflitto con la madre durante l’adolescenza. Un giorno Kevin compie qualcosa di tragico che cambierà per sempre la vita della sua famiglia e quella dell’intera comunità.
Recensione
“...E ora parliamo di Kevin” è un di quei film che, una volta finiti i titoli di coda, rimangono impressi in mente, lasciano l’anima scossa e il sangue congelato nelle vene. Adolescenti, senza un apparente motivo, distruggono le vite di loro coetanei. Cronache non troppo lontane nel tempo, che provengono da cittadine della tranquilla provincia del mondo: Columbine (Stati Uniti), Quebec (Canada), Erfurt (Germania), Kauhajoki (Finlandia), tracciano una mappa geografica sporca di sangue innocente.
Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Lionel Shriver del 2003 (in Italia tradotto più correttamente, rispetto al titolo del film, in “Dobbiamo parlare di Kevin”): le lettere di Eva Khatchadourian, madre di un adolescente che sulla soglia dei sedici anni compie una strage inenarrabile per la sua ferocia e freddezza. Le pagine di orrore e paura vengono illustrate sullo schermo dalla regista e sceneggiatrice scozzese Lynne Ramsay che già si era fatta notare con il suo primo cortometraggio, “Small deaths”, Premio della Giuria al Festival di Cannes nel 1996 e con la sua pellicola d’esordio, “Ratcatcher”, vincitore della sezione “Un Certain Regard” della medesima manifestazione nel 1999.
Chi ha letto il libro di Shriver rimarrà sorpreso per il modo in cui Ramsay, assieme alla co-sceneggiatrice Rory Kinnear, abbia interpretato le pagine del libro. Ramsay non dà molto spazio ai dialoghi, lavora piuttosto sulle immagini e sulla musica, offrendo una visione poetica di una storia tragica, fondendo reale e surreale, come se non ci fosse alcuna differenza tra loro. Un lavoro che ha trovato ottima collaborazione da parte del direttore della fotografia Seamus McGarvey: la sua è una fotografia che diventa arte. “...E ora parliamo di Kevin” inizia con una bella, inquietante immagine: una tenda diafana galleggia su una luce bianca, avvolta nell’oscurità. Definisce la prima essenza del film: l’impalpabilità. Una storia difficile da comprendere, difficile da interpretare, le cui cause possono essere solo oggetto di supposizione. I dubbi e responsabilità pesano come macigni. Educare, amare, relazionarsi agli altri: termini semplici da scrivere, ma che spesso mi mostrano come ostacoli insormontabili. Subito dopo, la Fiesta della Tomatina di Buñol (Valencia, Spagna): un mare di pomodoro rosso che, non a caso, sembra sangue (fantastica la ripresa dall’alto) nel quale è immersa una folla in uno stato confusionale, tra allegria e angoscia. E’ il rosso la seconda essenza del film: il rosso del sangue, il rosso della pittura gettata per scherno sulla casa di Eva, il rosso delle sedie di un’agenzia di viaggi, il rosso delle porte della scuola, il rosso di una candela, il rosso delle luci al neon, il rosso dell’orario di una sveglia, il rosso di un peluche, il rosso di una marmellata, il rosso di un giaccone.
Il flusso dei flashback, tra i diversi piani narrativi in cui scorre la storia e i momenti più brevi tratti dai ricordi di Eva, è reso in modo chiaro e coerente. Tutto diviene comprensibile agli occhi dello spettatore che scopre lentamente i dettagli della tragedia senza mai vederli. I frammenti in cui è distribuita la storia, distanti nel tempo, ma che si sfiorano per analogia nelle sensazioni dei protagonisti, si incastrano un puzzle perfetto costruito in fase di montaggio da Joe Bini.
Com’è possibile che un film tanto bello abbia ricevuto zero nomination agli Oscar? “...E ora parliamo di Kevin” è tra i migliori film degli ultimi anni, di sicuro migliore di quelli presenti nella categoria miglior film. Regia, fotografia e sceneggiatura (non originale) fantastiche, ottima anche la colonna sonora: il country di Lonnie Donegan; la dolce “Everyday” di Buddy Holly da sottofondo alla surreale parata notturna delle maschere dei mostri Halloween; la nostalgica “Last Christmas” dei Wham! durante un’apparente felice festa di Natale con i colleghi; “In my room” dei Beach Boys quando Eva entra nella stanza di Kevin alla ricerca di qualche notizia di un figlio che non riesce a comprendere; l’elegiaca “Once in Royal David’s city” utilizzata assieme al suono del boato del pubblico quando Kevin esce dalla scuola esibendosi e vantandosi come una rockstar. “Mother’s last word” di George Washington Phillips va ascoltata perché il suo testo, tradotto, dice più o meno così: «Non potrò mai dimenticare il giorno in cui mia madre mi disse dolcemente: “Stai per uscire, mio caro ragazzo, sei sempre stato la gioia di tua madre. Adesso, mentre inizi a vagare in questo mondo potresti non essere in grado di tornare a casa. Ma ricorda Gesù [...] lui ti farà luce e ti indicherà la giusta via”». Ognuno faccia la sua personale considerazione.
L’esclusione dagli Oscar di Tilda Swinton, qui alla sua migliore performace della sua carriera, è davvero l’assurdità (leggi: vergogna) più grande. Una scelta incomprensibile per la quale sarebbe obbligatoria una motivazione ufficiale. La sua Eva Khatchadourian è una donna che sopravvive cercando di convivere con un incubo senza fine, strozzata dalla colpa di aver generato quell’incubo e non averlo davvero compreso. Se all’inizio la vediamo come donna avventurosa, scrittrice di libri, nelle susseguirsi delle scene Eva diventa una donna sconvolta che vive in modo catatonico la sua vita per sottrarsi al dolore. Quel rosso della festa spagnola si trasforma nel rosso della pittura con cui qualcuno ha imbrattato la sua casa, un’onta che cerca di cancellare con tutti i suoi sforzi. Probabilmente Eva non si sentiva pronta ad essere madre, così come Kevin si sente come uno che non ha chiesto di nascere. Già da neonato sembra avercela con sua madre. Piange talmente tanto da sfinirla. Il suo pianto diventa un’ossessione continua tanto che, mentre si trova in strada con il passeggino, Eva si ferma in strada nei pressi di un martello pneumatico per non sentire le continue grida del bambino: se normalmente i 120db di quello strumento rappresentano la soglia del dolore, nel caso di Eva sono un piacevole sollievo. In tenera età Kevin è interpretato da uno spento e impertinente Rock Due, come bambino da un geniale quanto dispettoso Jasper Newell. L’adolescente Kevin è un androgino e maligno Ezra Miller, la somiglianza con la Swinton non si limita alla particolare acconciatura. Due entità così simili e così in contrasto. Un amoroso e passionale odio reciproco. Bastano gli sguardi mefistofelici di Ezra per creare un personaggio ambiguo, pervaso dal Male che neanche lui riesce a spiegare. Kevin è affettuoso con suo padre, Franklin (John C. Reilly), e non cerca neanche di nascondere alla madre il fatto che si tratti di una strategia studiata solo per farle del male. Franklin vive in uno stato di demente felicità, illudendosi che la sua famiglia abbia una vita normale e serena. E’ sempre raggiante, contento, giustifica in continuazione il figlio senza accorgersi di nulla.
“...E ora parliamo di Kevin” non è un film horror, è una storia di orrore domestico, troppo vicino ad ognuno di noi, una storia dura, devastante, inquetante e senza speranza, narrata con emotività e grande abilità dalla regista Lynne Ramsay. Acclamato in giro per il mondo, inspiegabilmente snobbato dalla Academy Awards.
Voto: 94%
Trailer “...E ora parliamo di Kevin”
1 Comment:
Ho letto il libro e francamente mi ha parecchio turbata. Nonostante un fondo di curiosità, penso che passerò il film.
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